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Riabilitazione e self help nell’ambito dell’Istituzione Psichiatrica

Riabilitazione e self help: gli obiettivi sono comuni se si considerano riguardo all’apertura soggettiva, riabilitarsi a essere dei soggetti, auto aiutarsi a essere sempre più consapevoli di essere dei soggetti. La diversità tra questi due dispositivi non sta quindi nelle finalità ma nella posizione che occupa l’operatore riguardo al sapere e al potere. Nel self help l’operatore dovrebbe sempre più sparire, o dimenticarsi di avere la funzione di facilitatore; il sapere deve circolare e di volta in volta accompagnarsi ora all’uno ora all’altro dei componenti del gruppo; è un sapere che non si deposita nel ruolo o in un posto preciso. Nella riabilitazione l’operatore occupa il posto di colui che sa come fare, è definita la posizione del sapere e quindi il gioco identificatorio dei componenti del gruppo verso tale posto o luogo occupato dall’operatore, che è facilmente percepibile e soprattutto è un meccanismo necessario al buon funzionamento riabilitativo. Anche nel self help c’è identificazione al sapere dell’altro ma è molto meno definito chi ha tale sapere.

L’ipotesi freudiana dice che l’organizzazione psichica umana fonda la sua funzionalità e la sua consistenza e pertinenza nel rapporto dialettico di riconoscimento e di nominazione che l’uomo ha con gli altri, con le cose e con gli oggetti. Ciò produce per l’uomo effetti e momenti di piacere e di dolore, realizzazione di cose buone e di cose cattive, incontri distruttivi e costruttivi, disturbi psichici e logiche sintomatiche.


Il rapporto che l’uomo ha con l’altro, con i suoi simili, concerne in prima istanza il rapporto che l’uomo ha con se stesso, come A(a)ltro da sé, in seconda istanza riguarda il rapporto con l’altro privato, la sua famiglia, e infine concerne la relazione con l’altro sociale, pubblico. L’assunzione “equilibrata” di tale rapporto con l’altro è fondamentale nell’uomo per delimitare quel che intimamente lo riguarda e lo considera proprio, ciò che pensiamo di essere e di volere, da quel che costituisce il campo in cui si muove l’altro con il suo discorso e con i suoi desideri, con la sua volontà di esistenza e di potenza, etc. L’altro scritto con l’a minuscola rappresenta il proprio simile per Jacques Lacan, gli altri, le persone, che noi incontriamo da quando veniamo al mondo; l’Altro scritto in maiuscolo non ha una concretezza materiale, mondana, ma rappresenta un luogo logico, teorico, che indica e significa la divisione in sé dell’uomo.

L’inconscio è il discorso dell’Altro. Questo enunciato è sostanzialmente vero nel senso che è pertinente a quel che si riscontra e che si “vede” nella pratica clinica e nella direzione di una cura, ma anche nella vita di ogni giorno, nei rapporti con le persone che costituiscono la vita di ogni giorno. E’ più visibile nella clinica perché la clinica, almeno nel senso psicodinamico, riguarda la costruzione da parte dell’operatore di alcune condizioni fisiche, spaziali, ma soprattutto “mentali “ di presenza e di accoglienza umana che consentano l’articolazione e l’interpretazione, la lettura e la decifrazione di ciò che succede nel rapporto con l’altro. È a questo livello che c’è interruzione. Il sintomo, una situazione sintomatica, sono i portavoce di una interruzione nel rapporto con l’altro che si ha perché l’altro esiste non solo come noi lo pensiamo e lo immaginiamo in una continuità “privata “ e non pubblica della nostra “testa”, ma esiste indipendentemente dal nostro pensiero e quindi si trova per forza di cose a funzionare in uno scarto e in una differenza che è data anche e soltanto perché è altro da noi, occupa ed è in un altro spazio fisico e linguistico. È uno spazio che nella sua natura logica per convenzione sociale è definito e chiamato simbolico, per via dei ruoli e delle funzioni sociali che la nostra organizzazione culturale e civile si è data e costruita.
Ciò che noi pensiamo dell’altro non è quel che l’altro è, e lo stesso vale per quel che pensa l’altro di noi. Questa discontinuità non è soltanto di struttura. C’è questo dato strutturale ma poi c’è il discorso dell’uomo che nel rapporto con i suoi dintorni sociali può costruire e può produrre una vera e propria interruzione e non discontinuità che può danneggiare molto incisivamente la relazione tra noi e gli altri. Da ciò sorgono le diverse classificazioni nosografiche.
Non entro in merito alla cosa, volevo soltanto indicare come il modello psicodinamico dà uno statuto centrale alla relazione e al rapporto con l’A(a)ltro.
Desidero riportare e commentare alcune riflessioni sul trattamento della psicosi in un collettivo psichiatrico svolte da Jean Oury in un vecchio libro ancora attuale che tratta il tema della psichiatria e della psicoterapia istituzionale nella clinica di La Borde vicino a Parigi.
Ciò che è efficace al livello del traliccio delle relazioni è dell’ordine del transfert. Ci può essere animazione dice Oury solo a questo livello, manifestazioni parziali del desiderio, desiderio di tutti i protagonisti del dramma che si svolge rasente questa superficie di senso. È evidentissimo, all’ascolto del discorso o delle confidenze degli schizofrenici, che proprio qui si ordiscono gli incontri, gli eventi che potranno modificare la configurazione dell’esistenza dell’uno o dell’altro, la ridelimitazione del territorio di vita, l’emergenza dei piccoli dettagli della vita quotidiana, “quasi cause” che mobilitano qualcosa del desiderio cristallizzato, non monetabilizzabile, nell’ordine ordinario della rappresentazione e del concatenamento tecnico del collettivo. Il problema è dunque di creare condizioni architettoniche che permettano al cosiddetto personale “curante” di accedere a questo livello impossibile del reale; ciò che si chiamano tecniche di attività hanno senso solo a condizione di permettere a ciascuno di passare la soglia della significazione, le frontiere degli statuti rigidi e delle rivendicazioni agonistiche.

Come organizzare collettivamente un sistema di operazioni che da una parte possono essere compiute solo individualmente e, dall’altra, possono essere efficaci solo attraverso l’iniziativa e il desiderio di ciascuno? Proprio alla risoluzione di questa aporia si dedica la psicoterapia istituzionale. Lo scopo della psicoterapia istituzionale e quindi del modello psicodinamico è di creare un collettivo orientato in modo tale che sia fatto tutto il possibile affinché la psicosi acceda a un campo in cui possa trovarsi, ridelimitare il suo corpo in una dialettica fra parte e totalità, partecipare al “corpo istituzionale“ tramite la mediazione di oggetti transizionali che possono essere artificio del collettivo con il nome di tecniche di mediazione e che possiamo chiamare “oggetti istituzionali”. Questi oggetti istituzionali sono tanto laboratori, riunioni, luoghi privilegiati, funzioni, etc, tanto la partecipazione a sistemi concreti di gestione e di organizzazione. Questa partecipazione dei “malati” alle strutture del collettivo di cui classicamente si incaricava soltanto il personale, ha il vantaggio da una parte di impedire ogni slittamento del collettivo verso una segregazione quasi neutralistica e dall’altra di favorire una vigilanza permanente per quanto riguarda l’oggetto e lo scopo dell’impresa, se non altro nel ricordare concretamente che l’impresa ha senso solo per la presenza dei suddetti “malati”.

 

Dott. Giovanni Castaldi

Piazza Guglielmo Oberdan 2, Milano

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